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domenica 17 marzo 2024

On The Runway "Tell Yourself It's Pretty"


David Norris è stato il motore principale di un gruppo power pop chiamato Crash Into June, attivo tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo secolo, e non dovesse sovvenirvi istantaneamente la citazione suggeriamo un urgente ripasso dei classici. Francamente ignorando come Norris abbia impiegato il proprio tempo negli ultimi vent'anni, festeggiamo l'agnizione manifestatasi sottoforma di una nuova band. On The Runway, da Memphis, Tennessee, provocheranno un sorriso nostalgico e compiaciuto in chi, molti anni fa, si è formato ascoltando di straforo le primissime college radio americane. "Tell Yourself It's Pretty", per l'appunto, è un disco giocato sulle diverse consistenze del jangle rock che negli anni '80, specie grazie a quattro ragazzotti di Athens, Georgia, è sembrato per un istante poter fare la voce grossa nelle classifiche. E allora, gli appassionati sanno dove stiamo andando a parare. 

La vena aurifera della musica indipendente diffusa dalle radio indipendenti nel sud degli Stati Uniti non restituiva nulla di scontato, da qualsiasi punto si osservassero le molte sfaccettature di un genere troppo spesso considerato dagli osservatori generalisti una mera e continua riproposizione degli stessi quattro arpeggi. Sono passati anni, ma gli eredi di quella storia ancora operano nella penombra, per ricordare ai più giovani che lo studio di Windbreakers, Church, Db's e Miracle Legion (non parlavamo forse di diverse sfaccettature degli 80's devoti alle chitarre?) non si traduce mai in tempo perso. In questo senso, "Tell Yourself It's Pretty" si offre come utilissimo Bignami, peraltro messo insieme da un tizio che le canzoni le sa scrivere molto bene, ché poi è il fattore decisivo per nobilitare non solo il jangle rock, ma qualsiasi forma d'arte preveda l'utilizzo di una penna.

 

Loser Of The Year e Bring Yourself Down, opportunamente poste in apertura e chiusura dell'album, suonano come coerenti manifesti di quanto scritto finora; due canzoni inzuppate di jangle sudista che avrebbero fatto una figura eccellente nella programmazione delle emittenti universitarie USA dell'epoca. Consolation Prize e This Will Be Your Year giocano su un doppio livello: un riff memore della potenza cristallina - che già di per sé è un ossimoro ma neanche troppo - dei Gin Blossoms a prendere il centro della scena, mentre a reggere la struttura dolci cascate di fragili arpeggi jangle si intrecciano nel sottofondo. Stuck On You, che trascinata da una melodia memorabile è forse il brano più vicino ai Crash Into June di "Another Vivid Scene", a tratti ricorda la grazia scintillante dei Church, mentre Lifeline, riff da circoletto rosso, spolvera il ricordo dei Teenage Fanclub del secondo periodo, quello di "Howdy!", per farci capire. 

 

I Teenage Fanclub, spesso citati a sproposito quando ci si riferisce a un certo sottogenere di pop chitarristico, sono invece un esempio perfetto per inquadrare la meravigliosa This Charade, melanconica e con gli occhi umidi, che sarebbe potuta stare su "Man-Made", così come i primi R.E.M. non possono non essere tirati in ballo parlando di House is Not a Home, altra perla di un disco che sarà  vera e propria manna per chi dal jingle jangle diffuso nel sud-est degli Stati Uniti quarantacinque anni fa è stato (e rimasto) irrimediabilmente segnato.


venerdì 15 marzo 2024

Mark & the Clouds "Machines Can't Hear You"

 


Si legge il nome di Marco Magnani e si sa a cosa si va incontro. Non si ricordassero i dati anagrafici, del resto, basterebbero le copertine. Marco da Bologna, già negli Avvoltoi a cavallo degli anni '90 ma residente a Londra da ormai numerosi anni, nel tempo si è costruito una solida carriera d'affidabilissimo menestrello psych pop. Tra i più continui e dotati autori nel sempre stipato stanzone sixties-revivalista, Magnani ha avvicinato l'apice della scena intorno alla metà del primo decennio del secolo, quando fondò i folgoranti Instant Flight che, oltre a un disco di debutto divenuto un sottoclassico di genere, di lì a poco si misero a giare con Arthur Brown, simbolo e leggenda di un'epoca e della trasposizione postuma della stessa.

Mark & the Clouds, trio che al fianco di Magnani schiera l'ex Instant Flight John O'Sullivan e Shin Okajima, sono arrivati al quarto album della carriera mantenendo la barra dritta e i gioielli di casa sempre ben riconoscibili. "Machines Can't Hear You" in qualche modo prosegue sulla strada tracciata dai predecessori "Blue Skies Opening" (2014), "Cumulus" (2016) e "Waves" (2021), offrendo al preparatissimo ascoltatore una rassicurante miscela di pop psichedelico con giacca floreale e pantaloni a strisce, eterei frammenti folk e alcune spericolate cavalcate quasi progressive. Abbastanza per soddisfare i cultori della materia, anche quelli più ortodossi, come sempre, ma le essenze pop nebulizzate qui e là, più frequentemente e con maggior ispirazione rispetto alla discografia antecedente, permettono all'album di ingranare una marcia superiore e di rimanere costantemente vivo nonostante la considerevole lunghezza (17 tracce).

Tanto vale rafforzare il concetto, dunque: i pezzi più strettamente pop della combriccola, ossia Swearing At The Moon con il suo incedere prossimo ai territori UK beat, Walking Dead Man dalle atmosfere colte dei primi REM e soprattutto l'indimenticabile Graves For You And Me, jangle pop adesivo come al meglio del genere può capitare, rappresentano tre decisi salti in alto propedeutici a un cambio di status di un album altrimenti destinato a rimanere un buon album di genere. Non che si vogliano mettere in discussione approccio filologico, interpretazione della materia cantautorale e capacità scrittorie di Magnani, che anzi conosce i suoi polli e sa maneggiare benissimo la sostanza sixties folk. Ma lo preferisco colorato e giocatore d'azzardo quando in What Can I Do? associa il Donovan di Barabajagal ad alcune spericolate chitarre fuzz, piuttosto che stretto nel confortevole paltò del crooner folk - bravo, bravissimo, per l'amor del cielo! - che aleggia durante Underground e Soul Of Nature, anche se gli arrangiamenti di archi nella prima e d'ottoni nella seconda sono certamente azzeccati.

 

Cercando altrove, meglio lo stupendo pop psichedelico alla Tomorrow di The Sun Goes Down del tentativo classic rock di The World Is Falling, un po' Come Together, un po' southern blues. La passione per il cantautorato folk di Magnani brilla quando è associato a costumi psichedelici e certamente l'assunto è comprovato dalla finale Two Minds In My Head, mentre le pulsioni prog, appena abbozzate in The Shadow e liberamente sfogate nel corso di The Age Of Clowns (undici minuti!) le lascerei valutare a qualcuno più competente di me sul tema. 

 

"Machines Can't Hear You" è un disco che ingrana la quarta quando non teme di lasciar scorrere liberamente la propria vena melodica, oppure il suo spirito paradossale. Succede in circa la metà dei pezzi, che meritano un gran voto. L'altra metà, per buona parte abbondantemente folk solo a tratti lisergico e per il resto acidognola e persino progressiva, soddisferà soprattutto gli appassionati più legati a quelle sonorità. Nell'insieme, un disco godibile nel complesso e a tratti eccellente. Ognuno ha le proprie preferenze, e naturalmente anche noi le nostre, ma obiettivamente Magnani la materia la conosce e la sa trattare. Avercene, di divulgatori così.

mercoledì 13 marzo 2024

Liquid Mike "Paul Bunyan's Slingshot"



Ho avuto modo di ascoltare l'omonimo album di Liquid Mike lo scorso anno. A differenza della stragrande maggioranza dei dischi omonimi che conosco, quello di Mike Maple da Marquette, Michigan, non era affatto un album d'esordio, ma addirittura il quarto della serie. Scelta inusuale, che in effetti importa poco. Sarà la città di provenienza, Marquette, luogo isolato per antonomasia, ad averlo tenuto fuori dal giro; non dico dal giro grosso, ma pure dagli ascolti standard di noi aficionados. Qualcuno, molto addentro a un certo tipo di questioni, deve averlo scovato per poi parlarne sui social che, vivaddio, qualche funzione encomiabile ancora la conservano. "Paul Bunyan's Slingshot" non incontrerà per questo i favori delle masse, ma almeno, adesso, se ne parla in giro. E a buona ragione, perché il ragazzo sa quello che fa. 

La materia qui è facilmente classificabile: 13 brani in 25 minuti di intenso, concentrato, reattivo alternative rock con i piedi ben piantati nelle classifiche di genere di 25 anni fa. Molto ispirata nelle soluzioni melodiche, mi azzardo a dire che la collezione, pur tradendo un certo qual debito con alcuni personaggi altamente sospetti, a tratti ne corregge persino i difetti che ai tempi me li avevano fatti apprezzare solo a tratti, o per nulla. Rumoroso, sì; derivativo, anche, ma se a vari stadi avete provato a farvi piacere come vi dicevano fosse doveroso i Dinosaur Jr. oppure i Foo Fighters, scontrandovi, voi amanti delle armonie fatte come dio comanda, con le voci di J. Mascis e Dave Grohl, qui c'è una chiave di volta. Si parla di costruzioni pop, non di paragoni, mi capirete.

Non mi perito di dichiarare che Drinking And Driving ricorda una versione più ristretta, melodica e meglio cantata dei Foo Fighters meno tamarri. Da aggiungere all'insieme dei grandi miti che mai, guardato male da tutti i miei coltissimi amici, sono riuscito a godermi fino in fondo, ci sono le varie esperienze di Bob Mould, del quale, scusate, ho sempre trovato indigesta la voce. Non le chitarre vagamente caotiche e nemmeno - giammai! - l'architettura dei brani; giusto l'impostazione armonica, che stupende saette come Works Bomb, /// e la title track in qualche modo sistemano.

 

Ho invece venerato e tuttora venero Evan Dando, e Town Ease in effetti ricorda una versione più sonica dei Lemonheads, mentre Mouse Trap e Pacer somigliano a degli American Hi-Fi più sporchi e meno presi da loro stessi. Altrove, AM è un lodevole frammento Weakerthans, e la superba Drug Dealer, più collegiale, è una gemma power pop di marca indipendente che ha assorbito anche la lezione dei sommi Nada Surf. 

 

Mike Maple, che nella vita di tutti i giorni fa il postino, nel corso delle tredici tracce narra con grande acume di isolamento, gentrificazione, di estati sprecate e - perché no? - anche un po' d'amore. Notevole, anche quando tutto ammanta di un sapido, caustico umorismo. Così nel corso di K2, che musicalmente ricorda un astuto mix tra i Nada Surf (ancora loro) e una versione più melodica e accelerata dei Built To Spill, a un certo punto della strofa non teme ripercussioni dai legali di Chris Martin mentre recita "You fell down when you passed out / A rush of blood straight to the head / pissed your pants and they were all yellow". Non così raffinato, direte voi. Grazioso, però. 

 

"Paul Bunyan's Slingshot" è un album breve, intenso e soprattutto molto ispirato. Io qualche indicazione ho provato a darla, ma se da questa stramba cornucopia ho pescato Lemonheads, Foo Fighters, Built to Spill e Bob Mould laddove voi riconoscerete Mascis, Jawbreaker e Weezer non ci sono errori di sistema. Abbiamo ragione tutti, è una questione di sensazioni (e indirizzi) globali. E, soprattutto, ha ragione Mike Maple. Da bere tutto in un sorso.

mercoledì 6 marzo 2024

Emperor Penguin "Gentlemen Thieves"



Tornano gli Emperor Penguin, ed è ovviamente una bella notizia. "Sunday Carvey" era stata una folgorazione per noi che già li conoscevamo per merito dello strabiliante "Corporation Pop" di cui a suo tempo parlammo su queste pagine, ma colpevolmente mai avevamo davvero approfondito una discografia ora giunta a sette album in quattordici anni di carriera. Quel disco traboccava effervescenza istrionica molto seventies - ma anche un bel po' XTC metà anni ottanta - con tutte le invenzioni e le bricconaggini del caso, mentre "Gentlement Thieves", disco di nuovissimo conio, sposta l'orizzonte temporale un decennio più indietro. Resta comunque difficile confinare gli Emperor Penguin all'interno di un territorio precisamente demarcato, e se il campo base in questione può dirsi più o meno battere bandiera UK beat, il costrutto generale è si, al solito, molto britannico, ma le influenze spuntano dal nulla e si irradiano verso le più imprevedibili destinazioni.

"Gentlemen Thieves" è un'opera dotta che narra storie di ladri e cita WB Yeates, ma non è un concept album. Le canzoni, come tradizione vuole, si reggono benissimo in piedi da sole, con la solita propensione alla dimensione singolo, almeno potenziale. L'ironia in qualche modo vittoriana pervade il contesto lirico e strumentale, con i soliti numi tutelari Costello e XTC ancora ben saldi nel pantheon.

That's The Worst It Could Happen, con i suoi bizzarri eco, riverberi e persino spruzzate di fuzz cela richiami power pop ante-litteram che occhieggiano alla beatlemania, mentre Silver Apples, con i suoi rimandi letterari, e Three More Years, posta in chiusura di percorso, definiscono le diversità di cittadinanza del suono con azzardate ma riuscite divagazioni di synth in un contesto piacevolmente proto-progressivo.

Eterogeneità che non si peritano di rimarcare Town Called Gone e Driving Blind, più corpulente: la prima strutturata su un disegno angolare da cui scaturisce un grande ritornello secondo un'architettura resa di grande successo dai Guided By Voices; la seconda, sempre caratterizzata da un lussuoso chorus, lambisce addirittura i territori di certo glam rock anni '70. Sonnez Les Matines, audace, parte con giro simil-reggae e viene trasportata da bassi compulsivi verso una sorta di eastern dance americana miscelata a certo madchester sound, e la strepitosa Pipistrelle è una gemma che evoca l'idolo Partdrige ornata da un astuto toy piano.

 

I libri classici del retroterra sciovinista britannico vengono ripassati nelle dispense titolate The Persuaders, traboccante dalla stretta intercapedine che separa Rubber Soul da Revolver, e You And Me, che sembra invece un outtake di Sgt. Peppers's con i suoi arrangiamenti a base di corni.

Disco eccezionale, sì, ma non sono ancora stati citati gli episodi migliori: uno di questi emana dalle chitarre tormentose e dalla batteria rotonda di Ladybird, grande power pop per palati fini; gli altri due dalla compartecipazione della solita Lisa Mychols, la quale eminentemente duetta con la voce di un preteso ma credibile Evan Dando intento a coverizzare Costello nel corso di I Would't Point It Like That, d'ispirazione vagamente jangle, e poi evoca la dea Kirsty MacColl nella lievemente psichedelica You Are My Atmosphere.

   

La manifesta idolatria per le prodezze musicali britanniche comprese tra il primo e il secondo Impero non si tramutano mai nella copia carbone di qualcos'altro. Le evidentissime capacità compositivo-scrittorie e il solito coraggio nel prendere la tangente imprevista fanno di "Gentlemen Thieves" un altro grande album degli Emperor Penguin, che ci permettiamo di pronosticare molto in alto in parecchie classifiche di fine anno, quando arriverà il momento.

Kool Kat | Bandcamp

 

giovedì 29 febbraio 2024

Radio Tangerine gennaio/febbraio 2024

 


In teoria avrei pensato di pubblicare una playlist con il meglio ascoltato negli ultimi trenta giorni circa alla fine di ogni mese, con pezzi in massima parte tratti da dischi recensiti sul blog. La realtà dice invece che sono subito partito con il piede sbagliato, e dunque la prima raccolta del 2024 è bimestrale, con la speranza di collocare le prossime a cadenza mensile. Questa riguarda le cose migliori finite sotto al radar di UTTT tra gennaio e febbraio di quest'anno. Fatene buon uso.

venerdì 23 febbraio 2024

The Maureens "Everyone Smiles"


Finalmente, a primavera de facto, cominciamo a parlare dei dischi in via d'uscita quest'anno.

Ho fatto per la prima volta conoscenza con gli olandesi Maureens nel corso dell'International Pop Overhtrow 2015 a Liverpool, dove Hendrik-Jan de Wolff e sodali si esibirono in un paio di show che mi lasciarono senza parole. Comprai il disco. La band mi vide mentre mi aggiravo per il Cavern Club con in mano il loro album di debutto. I ragazzi si davano di gomito lanciandomi sguardi tra il riconoscente e l'esterrefatto, come se ritenessero perlomeno bizzarro che qualcuno volesse mettersi in casa la loro opera prima. Ciò che mi colpì del gruppo in quell'occasione, oltre all'evidentissima capacità compositiva, furono i detonanti impasti armonici creati dagli intrecci delle loro voci. Qualcosa che non si ascolta proprio tutti i giorni.

Da quella trasferta sono passati quasi dieci album e altri tre dischi: "Everyone Smiles" è l'ultimo, pubblicato un mesetto fa a cinque anni di distanza dal precedente "Something In The Air". I Maureens centellinano, ma qualità e caratteristiche sono una gradevole costante. Il gioco, vincente, è quello di sempre: pop vocale di categoria superiore lucidato da armonie multistrato e da chitarre che in linea di massima tenderebbero al jangle, ora inclini a sfolgoranti escursioni verso il sole delle coste californiane, ora prodighe di richiami al retroterra folk e americana dei Jayhawks più melodici.

 

Il trittico iniziale formato da Stand Up!, Lost and Found e Sunday Driver fiorisce chiaramente in un microclima jangle pop, ma laddove la prima si dirama persino in rigoli che sanno di post brit pop dilatato alla Out Of My Hair, e la seconda vola su ritmi più alti di stampo indie pop, la terza occhieggia al PaulMcCartney periodo Rubber Soul. I Beatles, ma toh, nello specifico quelli più gentilmente dilavati da soffici chitarre acustiche, reggono le trame di Do You, Motherless Bird, Start Again e Only Child, mentre la carta classica della casa ispirata al sixties sunshine pop più tiepido propone piatti di gran pregio come Fell In Love, Alison e High & Dry In The Backseat, che lasciano percepire sintomatici umori Byrds, Left Banke e Billy Nichols.

Fuori dai sottoinsiemi, che sempre lasciano il tempo che trovano, si collocano Rainy Day, eccezionale spaccato di popicana tra Jayhawks e Long Ryders, e soprattutto il pezzo favorito della collezione: Warning Sign è né più né meno una luminescente gemma di power pop armonico che una volta sarebbe finita sulla classica cassettina, mentre oggi, essendo nostro malgrado cambiati i tempi, è destinata a essere pubblicata sul prossimo volume di Radio Tangerine. Per il resto, se gli intrecci vocali di lusso sono tutto quello che cercate, "Everyone Smiles" offre discreti spunti per godervela. Produce Frans Hagenaars, quello che ha messo l'oliva nel Martini in svariati dischi di leggende olandesi quali Daryll-Ann e Johan (a proposito di questi ultimi, aspettatevi novità a breve).

Meritorio Records | Bandcamp

domenica 18 febbraio 2024

2023, quello che ci siamo persi in diretta, piccolo riassunto in ritardo.

Stiamo strenuamente tentando di difenderci dall'irresistibile tentazione di non mantenere le promesse e dunque riproviamoci, a tenere il blog aggiornato: anche se ormai è primavera, ci sono rimasti nello scantinato quattro dischi 2023 di cui vorremmo parlarvi in breve, ancorché in sommo ritardo. L'idea sarebbe stata quella di scrivere pezzi singoli per ogni disco, ma nel frattempo le novità si stanno affastellando sulla scrivania e dunque bando alle ciance, essendo comunque la scusa classica sempre disponibile pronto uso: la musica non ha tempo, vabbè.

Cupid's Carnival "Rainbow Child"

Terzo disco per la band inglese dedita alla restaurazione filologica dell'epopea dei Fab Four. I Cupid's Carnival negli anni sono diventati beniamini tra gli appassionati di sixties pop, e a buona ragione. Addirittura pubblicati dalla Sony in Giappone, dove sono delle star minori, con tanto di colonnina dedicata nelle Fnac dei maggiori centri cittadini. "Rainbow Child" è un'opera scritta da appassionati per appassionati, e se già i precedenti "Everything Is Love" e "Color-Blind" rivelavano una certa competenza nell'approccio all'intero spettro musicale beatlesiano, le canzoni che popolano il nuovo album sono addirittura meglio riuscite, qualunque aspetto della british invasion prendano come spunto direzionale. Tanto quello d'estetica hippie e caleidoscopica della lennoniana Flower-Power Revolution, quanto quello dell'era "Help!"- "Rubber Soul" di cui sono certamente debitrici la ballata You're So Cool, l'acustica Thinking About You Girl e la splendidamente melodica Every Single Day. Miss You So Much, imporporata da sitar e slide guitar, aggiunge il necessario quid George Harrison al lotto, mentre Everything You Do è imperniata sul miglior jangle post-sixties rintracciabile su piazza. Chitarre Gretsch e Rickenbacker, basso Hofner, tamburi Ludwig. Sapete a cosa andate incontro. Sony Music Japan | Kool Kat

Angel Face "Angel Face"

Cambiamo decisamente registro, mantenendo decisamente alto il livello di entusiasmo. Angel Face è la nuova band messa insieme da Fink dei leggendari Teengenerate (ma anche di Raydios e Firestarter), in compagnia di Toyozo (Fadeaways), della signora Rayco e di tal Hercules, cantante dallo pseudonimo opinabile ma abrasivo il giusto al microfono. L'omonimo disco di debutto è decisamente imperniato su schiette sonorità punk settantasettine, per la verità non prive di una commendevole vena melodica per quanto sempre deviante verso il rauco. Dieci rapidi brani per una ventina di minuti scarsi d'ascolto e un irrefrenabile concentrato di power pop '79 suonato con ferocia punk un po' ovunque; Dictators in speed nelle entusiasmanti Bad Feeling e Big City; Stiv Bators con i pezzi del periodo caschetto e Rickenbacker suonati però all'epoca dei Dead Boys; ferraglia arrugginita eppure, o forse proprio per questo, irrimediabilmente irresistibile (un ascolto a Bring Me Back, conviene) e persino una spruzzata di doo wop al cianuro nell'esilarante I Can't Stop. Amore incondizionato. Slovenly Recordings | Bandcamp

The James Clark Institute "Under The Lampshade"

Da Toronto, Ontario, un album di quelli di una volta, come recita il press kit a più riprese replicato da agenzie di stampa e recensori vari: "Un disco fatto seguendo i comandamenti. Registrato in studio, con una band che suona dopo aver provato per mesi i pezzi. Con un ingegnere del suono di qualità e un grafico che sa il fatto suo. Taglio da tot papabili canzoni alle dieci elette che finiranno sui canonici 150 grammi di plastica nera. Copertina gatefold. Decine e decine di date per promuovere il tutto". Un lavoro laborioso e raffinato, che merita il secondo, il terzo e il quarto ascolto. Non così immediato, "Under The Lampshade" è un disco che "cresce addosso", se mi è consentito mutuare il tragico gergo dei giornalisti musicali. Tra numeri sixties pop guidati da inattaccabili organetti, ballate che tradiscono antichi dottorati in materia e momenti sinceramente trascinanti come la splendida e meravigliosamente intitolata Waiting On The Waitress, James Clark all'istituto fa la figura del secchione. Certi arrangiamenti vocali di stampo un po' soul sparsi in un paio di curve non sono per tutti ma tutti dovrebbero dar loro una chance. Altrimenti, assaporata una coltre di archi qua, un'indomita farfisa là, si può tornare alla casa madre, quella di Tom Petty e dei REM di "Fables Of The Reconstruction", che poi è la casa di tutti. Il nome scritto sul citofono è Black Licorice, Red Lips, stella di un disco che ha ottenuto tutta l'attenzione che meritava dai suoi stessi autori. Non vedo perché non dovremmo accordargliela anche noi. Official Website | Bandcamp

No Tears "Heart Shaped Eyes"

Uno degli highlight del mio 2023 è stato senza ombra di dubbio il concerto dei Velvet Crush a cui ho avuto l'onore di assistere nel corso dello straconsigliato Caravaca powerpop festival. Il leggendario gruppo di Paul Chastain e Rick Mench nell'occasione del breve tour in Spagna festeggiava i trent'anni del capolavoro "Teenage Symphonies To God", recentemente ristampato. Quest'introduzione per dire cosa? Che Christoffer Karlsson, nome di battesimo del tizio che in solitaria si cela dietro lo pseudonimo No Tears, ha scritto un disco che definiremmo "teenage rock'n'roll to God". O forse sarebbe meglio dire "teenage glam-pop to God". Fate voi. Ma non solo per questo, no. Strepitose perle di entusiasmo para-teenageriale come I Wanna Be With You (Tonight) - titolo sintomatico, capirete - e Broken Mirror, splendidamente arrangiate con tastierine Casio appropriate ancorché fuori tempo, ricordano molto da vicino le rare e geniali pubblicazioni dei Choo Choo Train, guarda caso la band che Chastain e Mench misero in piedi negli anni '80 prima di traslocare da Chicago al Rhode Island. Dreaming, Get Away e il potenziale, irresistibile singolo On 45 sono irrinunciabili spaccati garage pop non distanti nell'approccio dai lavori degli amati e misconosciuti Blips e persino - almeno nei momenti più melodici, e si prenda l'affermazione con le pinze - degli eroi nostrani Bee Bee Sea, se il loro retroterra culturale, nettamente punk, fosse contaminato da lunghe settimane passate ad ascoltare Quick, Milk'n'Cookies e Nick Gilder. Il disco, uscito lo scorso anno solo in formato digitale, è stato appena stampato in vinile, e in un certo senso potrebbe essere considerato eleggibile per le classifiche del 2024. Facezie burocratiche a parte, Christoffer Karlsson è uno degli "hot childs in the city", sperando apprezziate la citazione. Luftslott Records | Bandcamp